Secondo quanto stabilito dalla recente sentenza della Cassazione penale del 2 gennaio 2019 n. 61, il reato di stalking si configura nel momento in cui, indipendentemente dall’incontro fisico tra vittima e imputato, la condotta minacciosa del reo sia idonea a destabilizzare l’equilibrio psichico della persona offesa.
Con la pronuncia in esame la Corte di Cassazione, sulla base di principi già espressi in altre sentenze, interviene, così, su una fattispecie di particolare rilievo, al fine di reprimere le condotte persecutorie che logorano le vittime.
In relazione all’elemento soggettivo del reato, la sentenza in commento richiama, il principio consolidato secondo il quale “nel delitto di atti persecutori, l’elemento soggettivo è integrato dal dolo generico, che consiste nella volontà di porre in essere le condotte di minaccia e molestia nella consapevolezza della idoneità delle medesime alla produzione di uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice”.
In particolare, la Corte ha ritenuto che anche il contenuto di vari messaggi whatsapp, determinando una grave “intrusione” nella sfera intima della persona, assuma rilevanza sotto il profilo penalistico per l’intensità del contenuto.
Muovendo da tali presupposti, la Suprema Corte di Cassazione, nella sentenza in oggetto, ha considerato integrato il reato de quo, realizzandosi l’evento di danno richiesto dalla norma ed ha escluso che il comportamento tenuto dall’imputato potesse rientrare nelle fattispecie meno grave di molestie o minacce. Sul punto si evidenzia come il reato di stalking richieda, a differenza del reato di minacce o molestie, la presenza di condotte reiterate, anche in tempi e contesti differenti; condotte tali da cagionare alla vittima, alternativamente, un perdurante e grave stato di ansia o di paura, oppure un fondato timore per l’incolumità propria, di un prossimo congiunto o di persona legata alla vittima da una relazione affettiva, oppure l’alterazione delle abitudini di vita della persona offesa.
La norma di cui all’art. 612 bis disciplina, infatti, le conseguenze che i comportamenti persecutori devono causare alla persona offesa. Al riguardo non è necessario che la vittima individui o descriva con esattezza uno o più degli eventi alternativi del delitto, potendo la prova di essi desumersi dalla condotta dell’agente e dal complesso degli elementi fattuali altrimenti acquisiti ( Cass. pen, Sez. V, 28/12/2017, n. 57704). Inoltre si ritiene che gli atti persecutori, al fine di integrare la fattispecie di cui all’art. 612 bis c.p., debbano produrre un effetto destabilizzante della serenità e dell’equilibrio psicologico della vittima, comportando un’alterazione delle abitudini di vita della stessa.
Infine sul versante della protezione delle vittime si segnala come recentemente la Legge 17 ottobre 2017, n. 161 abbia incluso i «soggetti indiziati del delitto di cui all’art. 612-bis del codice penale» tra i possibili destinatari delle misure di prevenzione ex art. 4, co. 1, lett. i-ter) D.Lgs. 159/2011 anche se ancora non condannati, come avviene per gli indiziati per mafia. Dopo aver dimostrato la presenza di concreti ed attuali elementi di pericolosità sociale, il Giudice può così assicurare una maggiore tutela alla vittima anche in assenza di una eventuale condanna o alla scadenza della misura cautelare.
Tale applicazione rappresenta un nuovo e tempestivo strumento di tutela sociale volto a prevenire che le situazioni persecutorie degenerino in più gravi reati.