È possibile regolare contrattualmente la convivenza di fatto?

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A partire dagli anni ’70 del secolo scorso i costumi sociali familiari hanno registrato un progressivo mutamento sostanziatosi, nel diritto, nel superamento del concetto di famiglia come società naturale fondata esclusivamente sul matrimonio a favore del più flessibile istituto della convivenza di fatto.

Come di consueto accade, l’esponenziale modifica dei costumi ha determinato la necessità di adeguare l’ordinamento alle nuove istanze di tutela e regolamentazione relative ai diritti e ai doveri dei conviventi.

A fronte di un iniziale rimedio esclusivamente giurisprudenziale, con cui venivano applicate analogicamente ai conviventi talune disposizioni previste per i rapporti tra i conviventi in vita, soltanto nel 2016, con L. n. 76 (cd. legge Cirinnà), il legislatore ha tipizzato il contratto di convivenza, con lo scopo di aumentare le garanzie per le coppie conviventi, che decidono di vivere insieme in maniera stabile senza unirsi in matrimonio.

Tale contratto può essere definito come un accordo privato tra due partner idoneo a regolare gli aspetti economici e patrimoniali della coppia di fatto regolarmente registrata all’anagrafe.

Il contratto di convivenza è a tutti gli effetti un contratto, che deve essere stipulato in forma scritta a pena di nullità, con sottoscrizione di entrambe le parti davanti a un professionista che ne attesta la legittimità e che funge da garante oltre che da autenticatore.

Ogni modifica o risoluzione del contratto deve essere resa in forma scritta, tramite una scrittura privata autenticata o un atto pubblico. Il contratto, così come le eventuali modifiche successive, anche estintive, deve essere altresì registrato presso l’ufficio comunale ai fini dell’opponibilità a terzi, in modo similare a quanto avviene per le convenzioni patrimoniali tra coniugi.

Con tale contratto, quindi, le parti possono accordarsi su tutti gli aspetti economici della vita di coppia ma non su quelli personali, sessuali, sentimentali o di gestione della vita familiare.

Questo contratto può essere sottoscritto solo da due persone maggiorenni, in grado di intendere e di volere, unite stabilmente da un legame affettivo e di assistenza morale e materiale reciproca, non legate tra loro da vincoli di matrimonio, unione civile, filiazione, adozione e parentela.

Difatti, il contratto di convivenza è stato pensato per le coppie di fatto, sia eterosessuali sia omosessuali, i cosiddetti conviventi “more uxorio”, che hanno registrato il loro status presso l’anagrafe del Comune di residenza.

L’elemento essenziale delle convivenze di fatto è dunque l’esistenza di uno stabile legame affettivo. L’”affectio” è quindi elemento tipico della convivenza.

Difatti, laddove tale elemento venisse a mancare verrebbe meno il fulcro, la ragion d’essere della convivenza stessa, che da convivenza degraderebbe a mera coabitazione.

Nel contratto di convivenza la coppia può stabilire, ai sensi dell’articolo 1 co. 53 della legge sopra citata, il luogo di residenza, le modalità di contribuzione per far fronte alle necessità della vita in comune, in relazione al patrimonio e al reddito di ciascuno e alla capacità di lavoro professionale o casalingo, l’adozione del regime patrimoniale della comunione dei beni.

Dal punto di vista del rapporto personale, vengono introdotti tre fondamentali diritti del convivente: 1) Il diritto di visita in caso di malattia o ricovero di uno dei due conviventi, nonché il diritto di accedere alle informazioni personali, alla stessa stregua del coniuge o di un familiare (co. 39); 2) Il diritto di designare l’altro convivente quale proprio rappresentante, attraverso un atto da redigersi in forma scritta ed autografa o, in alternativa, alla presenza di un testimone (co. 40); 3)Il diritto di nominare il proprio convivente quale proprio tutore, curatore o amministratore di sostegno, qualora si versi in stato di interdizione, inabilitazione ovvero ricorrano i presupposti di cui all’articolo 404 del Codice civile (co. 48).

Per quanto riguarda la risoluzione, il contratto di convivenza può risolversi nei seguenti casi: quando c’è l’accordo di entrambe le parti; per recesso unilaterale; in caso di matrimonio o unione civile tra i conviventi o tra i conviventi e un’altra persona; in caso di morte di uno dei due conviventi ovvero di uno dei due contraenti.

La risoluzione deve avvenire nelle stesse modalità dell’atto della stipulazione, quindi in forma scritta per atto pubblico o scrittura privata autenticata.

Va precisato che, a seguito della cessazione del contratto di convivenza, l’ex convivente ha l’obbligo di versare gli alimenti se l’altro contraente si trova in stato di bisogno e non può provvedere alla propria sussistenza.

Novità meno rilevanti di quanto ci si potesse aspettare si individuano in materia di rapporti successori (in caso di morte di uno dei conviventi), ove i conviventi di fatto ricevono una tutela molto degradata rispetto a quella prevista per il coniuge superstite.

Difatti, il convivente superstite, in virtù del comma 42, ha diritto di continuare ad abitare nella stessa casa di comune residenza per due anni o per un periodo pari alla convivenza se superiore a due anni e comunque non oltre i cinque anni, mentre, in virtù del comma 44, ha la facoltà di succedere nel contratto di locazione della casa di comune residenza.

Questo modello, brevemente delineato, trova fondamento costituzionale tra i “modelli” familiari non fondati sul matrimonio, i quali sono inquadrabili nell’ambito delle formazioni sociali ove si svolge la personalità dell’individuo, riconosciute e debitamente tutelate dall’ articolo 2 della Costituzione.

Anche se non gode di una tutela costituzionale forte come quella riservata dalla nostra Carta costituzionale all’art. 29 alla famiglia fondata sul matrimonio, la positivizzazione di tale contratto di convivenza rappresenta un importante passo avanti, sia storico sia giuridico, all’interno del panorama nazionale di diritto di famiglia.

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