In continuità con il tradizionale ruolo di interprete-modernizzatore, che ha caratterizzato l’attività del Giudice di legittimità con riguardo all’istituto della responsabilità civile da fatto illecito, la Corte di Cassazione è stata chiamata a prendere nuovamente posizione sull’esistenza, la conformazione e la struttura del discusso e complesso danno da morte (c.d. danno tanatologico).
Con ciò intendendosi, una particolare figura di danno non patrimoniale, riconducibile sotto il novero dell’art. 2059 c.c., espressione della lesione del diritto alla vita, bene giuridico autonomo rispetto alla salute.
Ricostruzione sostenuta dalle Sezioni Unite nel 2015, ove gli ermellini avevano avuto cura di sancire che “In materia di danno non patrimoniale, in caso di morte cagionata da un illecito, il pregiudizio conseguente è costituito dalla perdita della vita, bene giuridico autonomo rispetto alla salute, fruibile solo in natura dal titolare e insuscettibile di essere reintegrato per equivalente”.
Il danno, che sorge in capo alla vittima del sinistro, si articola, dal punto di vista materiale, nella perdita del bene vita, esplicitabile come perdita integrale della salute, necessario presupposto del godimento degli altri beni terreni e, dal punto di vista psicologico, nel patimento da percezione della perdita della vita.
Si suole parlare, sul punto, rispettivamente di “danno biologico terminale” e di “danno morale terminale” o “danno da agonia”.
Tale netta distinzione strutturale si riflette sotto il profilo della risarcibilità.
Difatti, poiché il danno biologico terminale rappresenta il massimo pregiudizio per la salute, e si articola nella massima sofferenza fisica, sussistente per il tempo della permanenza in vita a decorrere dal momento del sinistro, per essere risarcibile necessita che il patimento si sia verificato per un apprezzabile lasso di tempo. In difetto, in presenza di una morte contestuale (c.d. sul colpo) o verificatasi a poca distanza temporale dall’occorso, tale voce di danno non potrà essere risarcita in aggiunta al normale danno tanatologico da morte del congiunto.
Diversamente, invece, il danno morale terminale (anche noto come danno da lucida agonia o danno catastrofale o catastrofico) consiste nel pregiudizio subito dalla vittima in ragione della sofferenza provata nell’aver consapevolmente avvertito l’ineluttabile approssimarsi della propria fine terrena.
Ed è pertanto risarcibile a prescindere dall’apprezzabilità e dalla durata dell’intervallo di tempo intercorso tra le lesioni ed il decesso, rilevando soltanto l’integrità della sofferenza medesima.
Motivo per cui, in presenza di un breve intervallo fra sinistro e morte (nel caso deciso dalla Corte si trattava di poche ore), l’insussistenza di un danno biologico terminale non comporta necessariamente l’esclusione del danno da lucida agonia, la cui ricorrenza prescinde dalla durata della sopravvivenza in vita e che deve essere accertata caso per caso.
Dal punto di vista probatorio, ad ogni modo, tale voce di danno resta comunque un danno conseguenza, che è necessario provare sia in ordine alla verificazione (an), cioè dimostrando la “coerente e lucida percezione dell’ineluttabilità della propria fine” avvenuta nell’arco temporale tra lesione e morte.
Dal punto di vista della titolarità, invece, trattandosi dell’intima sofferenza della vittima, l’eventuale diritto al risarcimento non può che ritenersi rappresentare un diritto proprio della vittima che, alla morte, sarà trasferito agli eredi, i quali potranno azionarlo in giudizio per ottenere il relativo ristoro.