L’art. 32 della Costituzione sancisce il principio per il quale nessuno può essere sottoposto a trattamenti medici contro la sua volontà: ciò che ne è derivato, soprattutto negli ultimi anni, è l’affermazione della necessità dell’assenso del paziente per ogni intervento o terapia, più o meno invasivo, alla luce dell’indicazione non solo delle eventuali alternative terapeutiche e del rischio di possibili complicanze, ma anche delle eventuali carenze di dotazioni strutturali della struttura sanitaria alla quale l’interessato si è rivolto.
A tal fine l’assenso deve essere consapevole, ovvero deve essere preceduto da una adeguata informativa riguardo alle caratteristiche, ai rischi ed alle finalità dell’intervento. Quanto alla forma, la legge non richiede che esso sia manifestato necessariamente in forma scritta: tuttavia, a fronte del valore probatorio di un assenso scritto in caso di futuri contenziosi, per prassi viene richiesta la sottoscrizione di un modulo, contenente le avvertenze principali riguardo al trattamento che verrà praticato, di modo da rendere il paziente in condizione di effettuare una scelta libera e consapevole.
Cosa accade però nel caso di un paziente minorenne?
In via generale, il nostro ordinamento giuridico non considera il minore del tutto capace di comprendere le conseguenze che possono effettivamente derivare da un trattamento terapeutico e, pertanto, necessario diventa il consenso dei genitori.
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 9180/2018, ha di recente affrontato l’importanza del consenso informato al fine di intraprendere un intervento chirurgico non indispensabile in caso di pazienti minorenni. Il caso verteva su un bambino, che era stato ricoverato a seguito di una colica addominale per cause non accertate. I medici dunque lo operavano immediatamente all’appendice, senza però aver previamente ottenuto il consenso da parte dei genitori, e, durante la fase post-operatoria, gli somministravano un farmaco ritenuto necessario, sebbene la madre, fin da subito, avesse fatto presente che il figlio fosse allergico al latte, nonchè ad alcuni antibiotici.
A distanza di circa cinque ore rispetto alla somministrazione del farmaco il bambino decedeva. I genitori, di conseguenza, instauravano un giudizio ai danni della struttura sanitaria e dei medici che avevano tenuto in cura il figlio, ma in primo grado il Tribunale rigettava la loro domanda, affermando che il decesso fosse dovuto a caso fortuito. La Corte d'Appello, invece, in riforma della sentenza di primo grado, ravvisava un’evidente colpa medica sia per la mancanza del consenso all’intervento chirurgico da parte dei genitori esercenti la potestà genitoriale sul figlio, sia per la non provata urgenza e necessarietà dell’intervento medico a cui era stato sottoposto il bambino. Da ultimo, la Corte di Cassazione ha confermato la sentenza del Giudice d'Appello, sostenendo che, in tema di intervento chirurgico non indispensabile su un minore, sia necessario acquisire previamente il consenso informato dei genitori.
La Corte ha dunque affermato che il diritto fondamentale all’autodeterminazione, distinto dal diritto alla salute, consente a ciascun individuo di poter scegliere liberamente l’applicazione o meno di trattamenti terapeutici sulla base delle proprie convinzioni etiche, religiose, filosofiche e politiche.
La Corte ha così condannato al risarcimento del danno sia la struttura sanitaria che i medici che avevano preso in cura il bambino.