Dal 1999, l’Assemblea dell’Onu ha scelto il 25 novembre per celebrare, in tutto il mondo, la Giornata mondiale contro la violenza sulle donne. Tale data non è stata scelta casualmente, bensì in ricordo di un avvenimento tragico, che vide coinvolte le tre sorelle Patria, Minerva e Maria Teresa Mirabal, uccise dagli agenti del dittatore Rafael Leonidas Trujillo a Santo Domingo, in Repubblica Dominicana, il 25 novembre 1960.
Dopo essere state fermate per strada mentre si recavano in carcere a far visita ai mariti, furono picchiate e gettate in un burrone dai loro carnefici, che cercarono di far passare quella brutale violenza per un banale incidente. All’opinione pubblica fu subito chiaro che le tre donne erano state assassinate perché attiviste del gruppo clandestino Movimento 14 giugno, ostile al governo dell’epoca. Tale avvenimento, e la data in cui si concretizzò, presto acquisirono un significato importante per le comunità femministe latino-americane o caraibiche: il 25 novembre del 1981 avvenne, infatti, il primo «Incontro Internazionale Femminista delle donne latinoamericane e caraibiche» e, successivamente, come detto, dal 1999 tale data è stata riconosciuta ed istituzionalizzata dall’Onu, come giorno simbolo della violenza contro le donne.
Oggi più di ieri è forse importante riflettere sul significato di questa giornata. Se da una parte, infatti, il progresso ha reso possibile una maggiore emancipazione femminile, dall’altra l’enorme espansione delle relazioni fisiche e, soprattutto, di quelle virtuali, ha aumentato il novero delle violenze possibili, che si sono andate ad aggiungere ai già noti fenomeni della violenza domestica, fisica e verbale.
Una giornata così importante come quella di oggi, porta inevitabilmente ad una riflessione sul periodo storico in cui le donne stanno vivendo e alle nuove sfide che si frappongono loro nel godimento delle fondamentali ed intangibili libertà personali.
Come detto, infatti, in un’epoca estremamente digitalizzata, in un periodo in cui la maggioranza delle interazioni passa attraverso la rete internet, la violenza non esplode soltanto tra le mura di casa, ma anche nel mondo virtuale.
Emergono così nuove condotte lesive delle libertà più personali ed intime della donna, su cui, perlomeno inizialmente, si è dibattutto circa la loro configurabilità come illecito penale. Tra tali condotte illecite ed immorali, una fra le più rilevanti, anche alla luce dei recenti casi di cronaca, viene detta revenge porn o, per dirlo con le parole utilizzate dal legislatore italiano, la diffusione illecita, da parte di soggetti terzi, di immagini o video sessualmente espliciti senza il consenso delle persone raffigurate.
Con la L. 19 luglio 2019 n.69, c.d. “Codice rosso”, infatti, è stato introdotto all’interno del codice penale italiano l’articolo 612 ter, il quale prevede per chiunque, dopo averli realizzati o sottratti, [e si, aggiunge, vista la portata del secondo comma] – avendo ricevuto o comunque acquisito le immagini o i video – invia, consegna, cede, pubblica o diffonde immagini o video a contenuto sessualmente esplicito, destinati a rimanere privati, senza il consenso delle persone rappresentate, è punito con la detenzione da 1 a 6 anni e una multa da € 5.000 fino a € 15.000.
Il revenge porn (caratterizzato dalla finalità vendicativa-punitiva che alimenta la trasmissione dell’immagine o del video), in realtà, è una faccia di un più ampio fenomeno, quello della pornografia non consensuale, che non si esaurisce nelle vendette di relazione, ma riguarda ogni condivisione o diffusione digitale di immagini di carattere sessuale senza il consenso della persona ritratta, indipendentemente dal suo sesso. Vero è, però, che ben il 90% delle persone ritratte nella pornografia non consensuale da un partner o ex partner sono donne.
Proprio in ragione di tali dati, il legislatore italiano ha previsto l’aggravante del reato (con annesso innalzamento della pena), qualora i fatti siano commessi da un ex compagno, o un ex marito che, terminata la relazione, decide di pubblicare il materiale sessualmente esplicito, che la coppia aveva consensualmente deciso di registrare nei momenti di intimità, con l’intento di tenerlo segreto a terzi.
Il revenge porn, che può definirsi come un’illecita pubblicazione di materiale pornografico senza il consenso della persona raffigurata, al fine, di per sé evidente, di screditare e umiliare l’ex partner, rappresenta, senza dubbio, per l’intensità e la casistica registrata, non una semplice ipotesi di reato, bensì la concretizzazione di una violenza di genere contro le donne o, per meglio dire, la manifestazione di un problema culturale e sociale che si riflette nelle dinamiche virtuali della rete, dove la possibilità di realizzare un numero molto più elevato di relazioni, simultanee e non, favorisce l’aumento del novero delle condotte illecite, non solo sotto il profilo giuridico, ma anche morale e sociale, quale è la trasmissione di materiale pornografico privato, qualunque ne sia la finalità.
Recentemente il tema è ritornato alle cronache per i fatti che hanno riguardato una maestra di una scuola di Torino, licenziata dopo che l’ex compagno aveva diffuso, sul gruppo degli amici del calcetto, alcune immagini intime risalenti al periodo della loro relazione. Oltre che con la violazione subita, la donna ha dovuto fare i conti con il licenziamento, arrivato dopo la comunicazione alla dirigente scolastica, da parte di una delle mogli degli appartenenti al gruppo e madre di uno dei suoi alunni, delle immagini sessualmente esplicite che la raffiguravano.
Questo caso, solo l’ultimo in ordine di tempo, manifesta ancora una volta le problematiche quotidiane di un retaggio storico-culturale di una donna più debole rispetto all’uomo che, in taluni (si spera sempre più limitati, fino a scomparire) casi, rappresenta un oggetto di cui l’uomo può arbitrariamente disporre.
Come detto, alcuni interventi di contrasto di questo spregevole fenomeno sono stati già adottati dalla Comunità internazionale e dallo Stato italiano in particolare, tuttavia il cammino è ancora lungo ed impervio.
Ben venga, con riferimento al fenomeno della violenza dell’intimità personale a mezzo web, una legge che tuteli le vittime (stragrande maggioranza donne) e punisca chi, nonostante l’età adulta, non abbia condiviso i precetti fondamentali del rispetto altrui, insiti in qualsiasi ordinamento giuridico liberale.
Il problema, però, lungi dall’essere semplicemente “repressivo”: prescindendo dall’esistenza di discipline giuridiche, la società contemporanea mostra ancora troppo spesso una propensione a legittimare e giustificare comportamenti maschili (e maschilisti) manifestamente lesivi della dignità della persona. Ben vengano leggi e sanzioni a tutela delle vittime, ma non si perda di vista l’esigenza primaria di anticipare ed evitare l’emersione di tali fenomeni, mediante azioni legislative e amministrative che promuovano l’educazione al rispetto dell’uguaglianza e della libertà altrui.