VALORE PROBATORIO DELLE CHAT: IL CASO WHATSAPP.

Secondo la Cassazione “l’utilizzabilità processuale di tali conversazioni è condizionata dall’acquisizione del supporto – telematico o figurativo – contenente la menzionata registrazione, svolgendo la relativa trascrizione una funzione meramente riproduttiva del contenuto della principale prova documentale“.

Accade sempre più frequentemente che screenshot o trascrizioni di di stralci di conversazioni intercorse mediante messaggistica istantanea (la più diffusa è WhatsApp), transitino all’interno delle aule giudiziarie, essendo utilizzati per provare le circostanze più disparate.
In ambito penale si è recentemente pronunciata la Corte di Cassazione, V Sezione penale, con la Sentenza del 25 ottobre 2017, n. 49016.
Il caso riguardava  una denuncia per stalking, fattispecie di reato sanzionata dall'art. 612-bis del Codice Penale, che prevede un aumento di pena nel caso in cui l'attività persecutoria venga posta in essere con strumenti informatici o telematici. Durante il processo il difensore dell'imputato aveva chiesto l'acquisizione, come prova documentale, della trascrizione delle conversazioni intercorse via WhatsApp tra l'imputato stesso e la persona offesa, con lo scopo di dimostrare l'inattendibilità e l'inaffidabilità delle dichiarazioni di quest'ultima. 
La Cassazione non nega che “la registrazione di tali conversazioni, operata da uno degli interlocutori, costituisca una forma di memorizzazione di un fatto storico, della quale si può certamente disporre legittimamente ai fini probatori, trattandosi di una prova documentale, atteso che l’art. 234 c.p.p., comma 1, prevede espressamente la possibilità di acquisire documenti che rappresentano fatti, persone o cose mediante la fotografia, la cinematografia, la fonografia o qualsiasi altro mezzo “. Tuttavia, precisa che “l’utilizzabilità processuale di tali conversazioni è condizionata dall’acquisizione del supporto – telematico o figurativo contenente la menzionata registrazione, svolgendo la relativa trascrizione una funzione meramente riproduttiva del contenuto della principale prova documentale“.

Ciò in quanto chi è chiamato a giudicare deve controllare l’affidabilità della prova medesima mediante l’esame diretto del supporto, onde verificare con certezza sia la paternità delle registrazioni, sia l’attendibilità di quanto da esse documentato.

La sola trascrizione del contenuto delle conservazioni rappresenta, dunque, per la Cassazione, uno strumento con funzione unicamente “riproduttiva del contenuto della principale prova documentale“, mentre è di fondamentale importanza, come emerge dalla motivazione della sentenza, la possibilità di verificare, oltre al contenuto, anche l’affidabilità della prova.
E ciò può essere effettuato attraverso l’esame diretto del supporto che contiene tale memorizzazione, così da verificare tanto la riconducibilità dei messaggi al loro effettivo autore e mittente, quanto l’attendibilità intrinseca del loro contenuto. Nella sentenza in oggetto la Corte di Cassazione, peraltro, non specifica con quale modalità i messaggi scambiati via WhatsApp possano essere concretamente acquisiti in giudizio a fini probatori. Nel caso in cui sia necessaria l’acquisizione al processo di una prova di questo tipo sarà quindi necessario fare riferimento a quanto prescritto dalla Legge L. 48/2008, avvalendosi di tecniche specifiche fondate sui principi di inalterabilità della prova e conformità con l’originale.

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