Il quattro dicembre scorso l’autorità garante per la protezione dei dati personali ha nuovamente preso posizione sull’annosa questione dei limiti al potere del datore di lavoro di utilizzare i dati contenuti nella casella di posta elettronica aziendale appartenuta ad un ex dipendente, ribadendo con forza il prevalere delle ragioni del lavoratore.
Negli ultimi decenni la tecnologia ha progressivamente condizionato le modalità di esercizio delle più disparate attività lavorative: in particolare, oggi, qualunque lavoratore, nello svolgimento delle proprie mansioni, utilizza quotidianamente e, spesso, in modo promiscuo, la casella di posta elettronica.
In ambito aziendale, la casella di posta elettronica rappresenta un contenitore di informazioni non solo lavorative ma anche personali afferenti ai singoli dipendenti, potenzialmente consultabili dal datore di lavoro.
Si pone, pertanto, un problema di bilanciamento fra il diritto alla riservatezza del lavoratore e l’interesse del datore di lavoro ad accedere e consultare le caselle di posta elettronica utilizzate dai propri dipendenti, soprattutto quando questi sono assenti dal posto di lavoro o abbiano cessato la propria attività lavorativa.
Tale problematica, infatti, non di rado, si palesa nei palazzi di giustizia italiani e viene generalmente ricondotta sotto l’egida dell’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori (L. 300/1970), come modificato dal c.d. Jobs Act.
In particolar modo, al terzo comma del medesimo articolo, il legislatore italiano, in un’ottica di riavvicinamento fra le posizioni dei lavoratori e quelle dei datori di lavoro ha disciplinato il potere di accesso di quest’ultimi rispetto alla possibilità di utilizzare informazioni acquisite attraverso i c.d. strumenti di controllo.