Il 5 febbraio scorso la Corte costituzionale italiana si è espressa in merito all’annosa questione relativa alla legittimità dell’esclusione della liquidazione coatta amministrativa dall’ambito di applicazione della c.d. legge Pinto, riconoscendone la legittimità alla luce degli altri ed equipollenti strumenti di tutela offerti dall’ordinamento ai creditori della procedura.
Ai sensi dell’art. 1-bis, comma 1 della legge 24 marzo 2001, n. 89 (C.d. legge Pinto): la parte di un processo ha diritto ad esperire rimedi preventivi rispetto al verificarsi della violazione del proprio diritto alla ragionevole durata del medesimo, avendo in ogni caso, ai sensi del successivo comma, diritto ad ottenere una equa riparazione per l’ingiusta violazione subita.
Sin dalla sua entrata in vigore, l’ambito di applicazione della norma è stato oggetto di discussione, palesandosi agli interpreti la necessità di chiarire, in linea generale, il significato del termine processo e, più in particolare, quello di procedura concorsuale, la cui durata ragionevole è stata stabilita nel massimo di sei anni.
Sul primo fronte, la giurisprudenza ha enucleato il principio per cui il diritto all’equa riparazione ex lege n. 89 del 2001 sorge soltanto con riferimento al processo, da intendersi come il luogo d’esercizio di un’attività giurisdizionale in senso stretto, escludendo la possibilità che possa sorgere anche nei casi di irragionevole protrarsi di un procedimento di carattere meramente amministrativo (cfr. Cass. sez. un. n. 4429 del 2014, Cass. civ. n. 23754 del 2007, Cass. civ. n. 483 del 2004).
Alla luce di tale orientamento, si è quindi posto il problema di valutare la possibilità di applicare, nell’ambito delle procedure concorsuali, la c.d legge Pinto alla liquidazione coatta amministrativa, da sempre ricostruita in chiave di procedimento amministrativo. Anche in questa ipotesi, infatti, la Corte di legittimità e i giudici di merito si sono espressi nel senso dell’inoperatività della legge, configurandosi la procedura de quo come un procedimento a carattere eminentemente amministrativo, in cui si innestano solo eventuali fasi di carattere giurisdizionale, quali la dichiarazione dello stato di insolvenza, le eventuali impugnazioni e le opposizioni allo stato passivo (cfr. Cass. civ. n. 12729 del 2011, Cass. civ. n. 28105 del 2009).
Proprio in riferimento a tale ultima questione, in virtù del consolidamento di tale orientamento, e dell’asserita impossibilità tecnica di esprimersi in termini differenti, la Corte d’appello di Bologna in composizione monocratica, chiamata a pronunciarsi sul punto, ha rimesso incidentalmente la questione alla Corte Costituzionale italiana, osservando come la normativa in epigrafe descritta, se interpretata conformemente alle pronunce di legittimità sopra indicate, parrebbe porsi in contrasto con gli artt. 3 e 24 della Costituzione, in quanto a fronte di una identica situazione soggettiva di vantaggio (l’essere creditore di un fallimento o di un liquidazione coatta amministrativa, la legge n. 89 del 2001 attribuirebbe solo al primo la possibilità di ottenere tutela per l’ingiusto ritardo subito.
Con sentenza n. 12, il 5 febbraio scorso la Consulta ha definitivamente pronunciato sul punto, dichiarando la legittimità della norma in esame, precisando come la liquidazione coatta amministrativa, per le particolari finalità pubblicistiche a cui deve assolvere, non possa essere ricompresa nell’espressione procedura concorsuale di cui all’art. 2, comma 2-bis, terzo periodo della legge n. 89 del 2001. In particolare, il Giudice delle leggi, esplicitando come la procedura in esame coinvolga interessi pubblici (legati a finalità di politica economica, industriale e sociale) preminenti rispetto a quelli prettamente esecutivi, ha specificato che “la tutela dei creditori di imprese sottoposte a procedura di liquidazione coatta amministrativa assume una connotazione doppiamente differenziata, rispetto a quella di altri creditori in sede concorsuale, in quanto gli interessi pubblici che giustificano la procedura amministrativa, per un verso, in qualche misura attenuano il rilievo del singolo diritto di credito e, per altro verso, rafforzano, però, la prospettiva finale di soddisfazione del credito, come effetto riflesso del concorrente obiettivo, di mantenimento in attività del complesso produttivo dell’azienda debitrice, perseguibile nella procedura amministrativa.
La Corte, però, proseguendo nella propria decisione, ha sottolineato come l’inapplicabilità della specifica legge al caso concreto, di per sé non determini un’ingiustizia nei confronti dei creditori, dal momento che, in forza dell’art. 2 bis, comma 1 della l. n 241 del 1990, questi potranno agire nei confronti delle pubbliche amministrazioni per ottenere il risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell’inosservanza del termine di conclusione del procedimento. Del resto, ha aggiunto, la mancanza di un termine predefinito per la conclusione del procedimento di liquidazione coatta amministrativa non si frappone al potere del giudice di accertare l’esistenza del danno, elemento che andrà valutato guardando alla peculiarità e alla complessità della singola vicenda liquidatoria, con piena applicazione del principio e della regola di proporzionalità, del divieto di aggravio, del dovere di conclusione del procedimento e della tutela dell’affidamento dei creditori coinvolti nella procedura, nonché dei criteri fissati dalla giurisprudenza della Corte Edu, da cui origina la stessa legge Pinto.
Con la sentenza in esame, pertanto, la Corte non solo ha colto l’occasione per ribadire la legittimità della legge Pinto e degli orientamenti giurisprudenziali formatisi sull’ambito di applicazione della liquidazione coatta amministrativa, ma ha anche opportunamente chiarito come il creditore danneggiato dal ritardo possa agire in propria tutela, attraverso il tradizionale rimedio sancito dall’art. 2-bis, comma 1 della legge 7 agosto 1990 n. 241.