Suicidio assistito e scriminanti penali: un ulteriore passo verso la comprensione del concetto di “trattamento di sostegno vitale”.

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Nei mesi scorsi la Corte di Assise di Appello di Genova si è espressa sul reato di agevolazione al suicidio, confermando la sentenza di primo grado della Corte di Assise di Massa del 27 luglio 2020 che, nell’interpretare e applicare i principi espressi dalla Corte costituzionale nel settembre 2019, ha ritenuto giustificata la condotta di aiuto al suicidio non solo quando il paziente è tenuto in vita da un macchinario, ma anche quando sopravvive grazie ad un trattamento farmacologico.
La vicenda, che ha suscitato grande clamore mediatico sin dagli inizi, ha visto protagonista un uomo, affetto da sclerosi multipla a decorso cronico progressivo dal 1993 (patologia che lo aveva oramai reso invalido ed inabile al lavoro al 100%, necessitando di assistenza continua perché completamente non autosufficiente). Patologia che, nonostante il massiccio ricorso alla terapia del dolore, gli procurava atroci sofferenze. Pertanto, nel desiderio di porre fine alla propria agonia, il paziente aveva maturato l’intenzione di togliersi la vita, ricorrendo alle pratiche di morte volontaria eseguite da una clinica svizzera. Tuttavia, la realizzazione di tale proposito era stata impedita dall’assenza di adeguate risorse economiche e dalla sua incapacità materiale di far fronte a tutti gli incombenti, anche burocratici, propedeutici alla realizzazione di tale pratica.
Ostacoli venuti meno dopo l’intervento volontario di un’associazione no profit dedita a favorire il proposito suicidario di soggetti irreversibilmente malati.
Più nel dettaglio, nel caso deciso dalla Corte d’Appello ligure, due responsabili dell’Associazione si erano attivati per rendere possibile il desiderio dell’infermo, poi realizzato in una clinica svizzera con assunzione indolore di un farmaco mortale.
Alla morte dell’uomo, i due membri dell’Associazione sono stati quindi incriminati e processati per i reati di cui agli artt. 110 e 580, comma 1 c.p. perché, in concorso tra loro, avevano rafforzato il proposito di suicidio dell’infermo e ne avevano agevolato l’esecuzione.
Invero, al termine del primo grado, la Corte di Assise di Massa aveva assolto gli imputati per i reati di rafforzamento del proposito suicidario e di agevolazione nell’esecuzione del suicidio, rispettivamente perché il fatto non sussisteva e perché il fatto non costituiva reato.
Difatti, con riferimento al primo reato, le prove acquisite avevano ampiamente dimostrato che il proposito dell’uomo di suicidarsi fosse nato in lui in modo indipendente e fosse ben radicato già prima di incontrare i due imputati, i quali, con il proprio operato, non avrebbero influito sul processo volitivo.
Per quanto riguarda la condotta di agevolazione nell’esecuzione del suicidio invece, la Corte di prime cure riteneva non imputabile la condotta, in virtù delle indicazioni e dei principi forniti sul finire del 2019 dalla Corte costituzionale con sentenza n. 242.
In tale occasione, infatti, la Consulta ha dichiarato l’incostituzionalità dell’articolo 580 c.p. nella parte in cui non esclude la punibilità di chi ha agevolato l’esecuzione del proposito suicida, formatosi liberamente e in autonomia, di una persona tenuta in vita da “trattamenti di sostegno vitale” e “affetta da una patologia irreversibile” fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, ma capace di assumere decisioni libere e consapevoli “purché tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente”).

  1. Pertanto, per aversi la scriminante (cioè per considerare la condotta incriminata come penalmente non rilevante), il Giudice deve verificare la sussistenza, nel caso concreto, di taluni requisiti indispensabili, e cioè:
    1) l’accertamento da parte di un medico della irreversibilità della malattia;
    2) verifica da parte di un medico della sofferenza fisica e psicologica;
    3) verifica da parte di un medico della dipendenza del prosieguo di vita da trattamenti di sostegno vitale;
    4) verifica da parte di un medico della capacità del malato di assumere decisioni libere;
    5) manifestazione chiara ed inconfutabile del malato della volontà di porre termine alla propria vita;
    6) informazione del malato della possibilità di accedere a soluzioni alternative ed in particolare alle cure palliative.

Elementi che la Corte d’Assise di Massa già aveva ritenuto essere stati dimostrati: sia perché era stato accertato da un medico che la patologia fosse irreversibile e che il malato patisse una grave sofferenza fisica o psicologica, sia perché era stato verificato in ambito medico che la vita del paziente dipendesse da trattamenti sanitari indispensabili per la sopravvivenza.
I medici avevano poi appurato che il malato era capace di prendere decisioni libere e consapevoli ed aveva manifestato in modo chiaro ed univoco la propria volontà di morire. Infine, il paziente era stato adeguatamente informato delle possibili soluzioni alternative, anche con riguardo all’accesso a cure palliative.
Ciò nonostante, l’Ufficio dell’Accusa proponeva appello, ritenendo che, in realtà, nel caso di specie non sussistesse il requisito della dipendenza da un trattamento di sostegno vitale.
A parere dell’appellante, infatti, nel fissare tale requisito, la Corte costituzionale avrebbe agito in maniera conservativo, intendendo riferirsi a situazioni estreme e compromesse in modo definitivo, per le quali la morte è certa ed è evitabile solo mediante un atto prettamente medico o l’utilizzo di apparecchi e dispositivi perpetui. Condizioni non rinvenibili nel caso in esame.
Analizzata la questione, la Corte di Assise di Appello di Genova ha ritenuto, però, l’impugnazione infondata, confermando la decisione del primo grado con una sentenza che si mostra significativa soprattutto in punto di argomentazione e interpretazione circa il significato della definizione di “trattamenti di sostegno vitale”.
Difatti, ha ricostruito acutamente la Corte, nonostante il caso deciso della Corte costituzionale nel 2019 riguardasse una persona tenuta in vita da un respiratore artificiale, la Consulta aveva preferito usare la definizione ampia di “trattamenti di sostegno vitale”, in ciò potendo far rientrare anche meri trattamenti farmaceutici o di assistenza continuativa, che sono però indispensabili per garantire il prosieguo della vita del paziente.
Proprio partendo da tale ampia nozione, la Corte di Assise di Appello di Genova ha evidenziato come il divieto di aiutare taluno a procurarsi la morte vada sempre coniugato con il diritto alla vita dignitosa e con il diritto al rifiuto di trattamenti terapeutici a fronte di una malattia che abbia esito certamente infausto.
Pertanto, i Giudici di secondo grado hanno ritenuto che non solo la dipendenza dalle macchine, ma anche il trattamento farmacologico prolungato, senza il quale si verificherebbe la morte del paziente, possa essere considerato un trattamento di sostegno vitale e dar luogo quindi alla scriminante invocata.
Per l’effetto, hanno quindi confermato l’interpretazione del Giudice di primo grado e, di conseguenza, l’assoluzione dei due imputati, stabilendo un principio importante anche per le persone la cui vita non dipende da un macchinario, ma da un trattamento farmacologico senza il quale allo stesso modo non potrebbero vivere, e ponendo un nuovo importante pezzo sul lastricato del diritto giurisprudenziale che sta sempre più prendendo forma in materia di eutanasia e fine vita.

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